Critica
Jean Blanchaert – Marco Benedetti, l’agro-poeta pittore – 2019
Marco Benedetti ha uno sguardo inquisitorio-buono. I suoi occhi profondi e pazienti hanno fatto amicizia col destino. Questa mostra antologica è dedicata anche a suo padre col quale Marco ha avuto sempre una conversazione silente. Di frequente si sedevano a guardare un campo senza dirsi una parola, in pace con sé stessi e con la natura. Per motivi di salute, Marco Benedetti non ha potuto ereditare il mestiere paterno: lavorare la terra. Troppo faticoso per il suo fisico. Eppure, oggi, Benedetti è uno dei massimi interpreti dell’arte agricola. Prima di essere pittore, prima di essere qualsiasi cosa, egli è un agro-poeta, cioè qualcuno che pensa alla natura come soggetto e non come oggetto. Marco Benedetti sogna. Sogna, sogna e risogna e, quando si risveglia, materializza il suo mondo onirico, lo traduce in olio su tela, più raramente in scultura. Ha il tempo per farlo. La sua vita è organizzata per mostrarci le sue visioni notturne e raccontarci il suo mondo interiore. Chiunque può lasciarsi andare e produrre musica, scrittura e pittura, scorrevoli come fiumi. Emozioni riversate sulla carta o sulla tela. Ma senza le basi, senza la tecnica, sorrette da anni di mestiere, queste famose sensazioni non commuoveranno nessuno, lasceranno il tempo che avranno trovato, non cambieranno di un millimetro lo stato delle cose. Fortunatamente per lui e per noi, la madre di Marco Benedetti, intuendone il talento, lo ha mandato a scuola di pittura all’età di sette anni dal medico-pittore Enrico Less che ha tolto alla pittura il suo ermetismo e l’ha mostrata al bambino estasiato in tutta la sua accessibilità. Appresi armonia, solfeggio e contrappunto, il monarca assoluto della sua vita, cioè il suo inconscio, ha potuto esprimersi con chiarezza, senza fronzoli, evitando con cura di indulgere in compiacimenti. A volte, però, anche per lui è stato impossibile resistere alle lusinghe. Il suo mestiere incredibile spesso lo ha sedotto fino a suggerirgli dipinti di frutta splendidi come nature morte secentesche dove la morte esibisce una bellezza congelata, una sfida potente e tranquilla alla vita. D’altra parte, se si sa eseguire alla perfezione il tuffo carpiato quadruplo e mezzo in avanti (coefficiente di difficoltà 4.1) come fare a resistere a non farlo? Paganini e Liszt hanno vissuto di virtuosismo e la frutta specchiata di Benedetti è appunto virtuosa e impareggiabile. Altre volte, la sua sensibilità lo ha condotto a esplorare le più sottili gradazioni della psiche come nei ritratti, ricchi di quell’inespresso che si fa interrogare e accende l’intuizione di chi osserva. Benedetti si diverte a giocare con noi, ci descrive scene di sogno e pezzi di favola di cui soltanto lui, i bambini e le anime pure conoscono il senso. La sua vena elegiaca trentina gli fa immaginare dei paesaggi che non esistono in natura, ma sono ugualmente naturali come una poesia fissata nella memoria. E dai cieli della sua regione lo proteggono benevolmente Ötzi di Similaun, cacciatore di cinquemila anni fa, e Fortunato Depero, uscito dal genius loci roveretano come uno zampillo di un getto di petrolio. I pensieri notturni sulla vita hanno generato moltissima pittura e qualche opera tridimensionale. Quando dipinge, Marco Benedetti è in trance, col suo sguardo perplesso-indefesso, perennemente preoccupato, perennemente ottimista. Ogni suo gesto è un inno alla vita. Quando ha la tavolozza in mano si muove come un robot diretto al centro delle cose e delle persone che ritrae. Sono cinquant’anni che affina questi movimenti automatici. Il suo lavoro è inconfondibilmente benedettiano, non assomiglia a nessuno. Abbiamo diviso la sua opera in tredici sezioni: Autoritratti, Big Portrait, China, Corpi neri, Eros e Thanatos, Gli scomparsi, Il vuoto dentro, Io ho visto, Kafka- Il castello, Natura morta, Non classificati, Paesaggi, Sculture. I suoi Autoritratti, spesso sono veloci, immediati e carichi d’ansia. Il pensiero della malattia cardiaca lo ha sempre accompagnato. Fortunatamente, la ricerca scientifica e la medicina hanno fatto una corsa più veloce. I Big Portrait, i grandi ritratti, ci regalano invece una percezione di calma, di fissità, di accettazione del proprio fato da parte delle persone che hanno posato per lui. Dipingere queste enormi tele è molto complesso, è un lavoro terapeutico, ci vogliono pazienza e tranquillità. Le Chine, dipinte con pennelli giapponesi, ritraggono il padre in attesa o il nostro autore in vari momenti della giornata. In Corpi neri, camminano sulla spiaggia, in controluce, figure stanche e un po’ deformi che approfittano del rito estivo per dimenticare la pudicizia e tornare a forme preistoriche liberatorie. Eros e Thanatos è una valigetta da viaggio che contiene un dipinto su tavole. E’ un polittico che mostra un’umanità orgiastica e dionisiaca. Il groviglio delle figure e delle sagome umane sembra uscire dal Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch. Gli scomparsi, è un lavoro che s’ispira a una pubblicazione degli anni ‘70 che mostrava fotografie di vittime della tortura di tutti i conflitti, documentandone danni fisici e morali. Queste tecniche miste su carta sono state disegnate a memoria da Marco Benedetti trent’anni dopo, tanto era stata l’impressione lasciata in lui da queste immagini. Nessuno di questi “scomparsi” ha più dato notizie di sé. Il vuoto dentro. Sfatiamo una volta per tutte il paragone con Giorgio Morandi. Questi vasi e queste bottiglie sono ritratti, un tentativo di far diventare l’oggetto, soggetto. Una sorta di teatro nel quale i barattoli e i bicchieri parlano fra loro, hanno un carattere e una vita propria e non somigliano alla pur meravigliosa asetticità dei dipinti morandiani. Le bottiglie di birra poi, sembrano addirittura i ritratti di chi le beve. Io ho visto, è un libro di Pier Vittorio Buffa che intervista i pochi sopravvissuti alle stragi naziste di rappresaglia come, per citarne solo alcune, Marzabotto, Boves, Sant’Anna di Stazzema. Benedetti ritrae a olio su tela dieci di questi personaggi, riuscendo a trasmettere nei dipinti sia l’orrore passato che la forza vitale presente e futura. Kafka – Il castello. Case gotiche, architetture parlanti e angoscianti, muri che non sono più oggetti ma soggetti dell’opera, il ponte che ti porta altrove. Marco Benedetti ha voluto così illustrare uno dei suoi libri preferiti e, già che stiamo parlando di libri, non possiamo non dire quanto legga Benedetti. Storia, filosofia, narrativa, teologia. Parla un italiano magnifico e preciso, lo stesso italiano col quale si esprime Enzo Mari, è l’idioma di chi non si è accontentato del suono delle parole, ma le ha interrogate come un poliziotto, facendole confessare: chi siete, da dove venite, qual è la vostra etimologia. Natura morta. Si comincia con un cavolfiore che profuma di cavolfiore. La vita è protagonista assoluta, sono ritratti in diretta di anime vive. Avendo la campagna in casa, Marco Benedetti dipinge soltanto frutta di stagione. Le mele, le pesche, le pere, i melograni, i cachi sono per lui quasi persone. Quando, dopo averle dipinte, dopo il dolce, la moglie Lucia le porta in tavola, i coniugi Benedetti diventano quasi cannibali. La meraviglia dei colori di questi quadri somiglia alla vita e la frutta, non ha bisogno di chirurgia estetica, anche quando è in istato di decomposizione. Non classificati sono quadri pieni di miti e di archetipi, legati ad aspetti teorici e culturali. Un cane guarda un ragazzo senza mano proporre una libagione. La condizione umana è una montagna alta, alla fine, siamo soli. Perché viviamo? Perché siamo qui? Troppe volte ci troviamo crocefissi. “Eli, Eli, lemà sabachtani”? “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Il ritratto di Innocenzo X, Giovan Battista Pamphilj è stato dipinto nel settembre del 2019. La serie dei Non classificati si chiude col ritratto del terzo Papa gesuita che Benedetti ha dipinto più à la façon de Soutine che à la façon de Velázquez. I Paesaggi sono luoghi spirituali, tanto più spirituali quando non ci sono uomini in circolazione. La natura lascia allibiti e sorpresi, il bellissimo paesaggio della Champagne è popolato da rape al novantacinque per cento del suo territorio. Soltanto il restante cinque per cento ospita la più famosa uva del mondo. Sempre nella Champagne, troviamo una casa dal tetto rosso nell’architettura spirituale di un paesaggio mistico. Ispirati a Morlotti sono invece i cieli essenziali e Dio dichiara di esserci dalle nebbie del Ticino. Campi ordinati della Bassa Codognese, alberi in fila che generano ordine mentale e altri alberi botticelliani interrotti da una macchia nera. Scenari dell’inquietudine ottimista e fatalista, quella che porta lontano. Nell’agro-poetica di Marco Benedetti, nei suoi paesaggi, non c’è spazio per il glifo solfato. Sculture. Quattrocento anni cruciali per la Cina sono stati quelli della dinastia Han (206 a.C. -220 d.C.), una delle più ricche di poesia: “Verde, verde,/L’erba lungo il ruscello./ Folto, folto,/ Il salice del giardino./Triste, triste,/ La dama nella sua torre./…” A questo periodo misteriosamente appartengono le sculture di Marco Benedetti, piccole figure stilizzate uscite da uno spettacolo di Robert Wilson: uno Airedale, un’acrobata a cavallo, un cane di corte. La notte prima di una lezione al Politecnico di Milano, il venticinquenne Marco Benedetti sognò una donna che non conosceva. Entrato in aula, era lì. E c’è ancora. Lucia.
Vittorio Sgarbi – Roma, 8 marzo 2001
É buono il lavoro di Marco Benedetti e riusciti i suoi ritratti, mai fotografici.
Allucinazioni, nevrosi, concentrazione, anche incubi sono i caratteri di una pittura che non concede nulla alla gradevolezza, alla decorazione.
Artista essenziale è Marco Benedetti, e poco capito.
Andrea Kerbaker – 2019
È sempre difficile sintetizzare con le parole l’opera di un artista ospitata in una antologica: un’esposizione dove per definizione si ritrovano varie fasi, spesso alternate senza un ordine logico preciso, se non quello dell’estro, della fantasia, di ispirazioni e suggestioni del momento. E il compito è ancora più arduo quando l’artista in questione, Marco Benedetti, va per la sessantina, e quindi ha avuto modo di cambiare rotta più volte, lungo un’esistenza che si dipana nei decenni a cavallo di due secoli così diversi fra loro. A rendere le cose ancora più complicate ci pensa la natura dell’uomo, appartato, di poche mostre e poche parole: in un’epoca in cui chiunque parla di tutto, un unicum che ce lo rende immediatamente simpatico e vicino. Per fortuna nel caso di Benedetti non tutto è troppo misterioso: alcuni elementi coesivi permettono di orientarsi con maggiore facilità. Il primo fra tutti è la continuità: con rare eccezioni, quasi tutte le opere esposte sono tavole, su tela o legno. Raro l’utilizzo di altri materiali, infrequenti le scorribande in mondi affini. Questa fedeltà alla tecnica è già una buona indicazione di percorso; così, come, nell’ambito di questa coerenza, lo è la tendenza a limitarsi ad alcuni generi chiaramente circoscritti: paesaggi, nature morte e ritratti. All’interno di questa tripartizione, i ritratti occupano sicuramente una posizione dominante: grandi, medi e piccini, unici e molteplici, realistici o di fantasia, dedicati a se stesso come a soggetti terzi, ce ne sono per tutti i gusti e tutte le passioni. Questa persistenza nello scavare nei volti e nelle fattezze umane è un’altra indicazione preziosa. Si tratta di ritratti singoli, o al più di coppia; se, come in questa mostra, si ha l’occasione di vederne molti tutti insieme, non prevale l’idea della ripetizione; piuttosto si prova la sensazione di trovarsi in luoghi molto affollati, di personaggi e soprattutto di personalità. Davanti a ciascun ritratto viene voglia di capire di più: perché proprio lui, perché in quel momento e in quella postura. Naturalmente non sempre l’opera di approfondimento è possibile. È il caso, per esempio, dei Mostri, misteriosi esseri senza identità dove un’apparente tranquillità inespressiva genera un’ansia incontenibile. Da dove arrivi quest’ansia, se da una ricerca di infinito, come sembrano suggerire alcuni sfondi, o da un tormento interiore che l’arte non basta a placare (il riferimento a Munch non è casuale), è lasciato alla percezione del visitatore: ciascuno è autorizzato a immettere in queste figure le proprie pulsioni, i desideri irrealizzati, le inquietudini. In altri casi, tuttavia, viene in soccorso un’altra caratteristica fondamentale di Benedetti, che è persona intimamente e profondamente colta. Non tanto e non solo dei principi fondativi della di storia dell’arte: di quelli, più o meno, sono imbevuti quasi tutti gli artisti veri. Ma Benedetti è uomo di curiosità culturali a vasto spettro, che lo porta a essere un lettore forte, di narrativa e anche di poesia (rara avis!); e, visto che l’uomo non è neppure privo di forti passioni, politiche e sociali, la sua natura lo porta spesso a frequentare anche opere di saggistica. Questa curiosità per le cose del mondo spesso si traduce in altrettante ispirazioni, che si parli di Baudelaire citato da Roberto Calasso o delle vittime dell’orrenda strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, suggerite nel 2013 dalla lettura di “Io ho visto”, un libro di Pier Vittorio Buffa, in una delle serie più dense di significati. E la cultura trionfa anche quando Benedetti si sbizzarrisce in opere deliziosamente fuori dal tempo, come il quadro da viaggio, ispirato niente meno che a quelli che Piero della Francesca creava per il cardinal Bessarione. Un artista così colto correrebbe il rischio di essere cerebrale, di quella laboriosità che rischia di rendere le sue opere parzialmente o totalmente incomprensibili, tanto più se seguiamo l’indicazione di Vittorio Sgarbi, secondo cui questa “pittura non cede nulla alla gradevolezza, alla decorazione”. È però evidente a prima vista che Benedetti evita il pericolo: la sua opera è immediatamente fruibile da chiunque. In questo direi, sta l’essenza intima della sua arte: che consiste in un unico, imponente tentativo di rendere comprensibile a tutti ciò che in principio non lo è. Benedetti è, insomma, un artista della semplificazione: quel sacrosanto principio che in Italia, paese degli Azzeccagarbugli e dei loro latinorum, è così difficile da ottenere. Per lui, invece, il processo è preciso: si parte dal complesso, dall’intricato, che sia una curva particolarmente ardita della mente o una piega dolorosissima della storia – e la si semplifica fino a renderla il più piana possibile. L’iter naturalmente non è semplice, il che spiega in parte la scarsa prolificità di questo artista, e ci spiana la strada all’ultima considerazione: la sua refrattarietà all’appartenenza a movimenti artistici. Una ritrosia che in parte si spiega con la natura schiva dell’uomo di cui si diceva sopra, e in parte con la sua ironia: dote innata che affiora qua e là anche in molte di queste opere, facendocele apprezzare di più.
Filippo Martinez – Roma, aprile 1994
Marco Benedetti ha una larga cicatrice sul cuore e un formidabile senso della morte, per questo è così vivo. Per questo fa le tombe più belle del mondo. Tombe d’acqua, tombe di luce. Con tutto il cielo dentro e il vento. Per me ha realizzato un trono semplice e sontuoso che si accende e si spegne con i battiti del mio cuore. Marco Benedetti contro la morte agisce da isolato. Come Rambo. E cerca ordigni di vita. Per costruire un quadro, ad esempio, ha bisogno di una buona dose di immortalità, e l’immortalità si trova nel mito. Marco Benedetti è un grande stanatore di miti: l’aula della sua prima elementare, un cane che passa, un amico. Una volta intercettato il mito, da buon visionario, lo proietta mentalmente su una superficie che gli pare idonea: una porta, un cartone, un cartello stradale. Poi lo fissa dipingendolo con rapidità. Le rifiniture e i mezzi toni sono considerati elementi di disturbo per chi guarda. I dipinti di Marco Benedetti entrano con un blitz negli archivi della memoria. E stanno.
Elisabetta Maino – Per Marco – 2019
Una grande incombenza quella di parlare di Marco. MB, pittore, architetto, storico, ma soprattutto amico, un grande amico, conosciuto al primo anno di università, al Politecnico di Milano, oggi PoliMi, mentre cercavo di muovere i miei primi passi all’interno della Facoltà di Architettura: un mondo nuovo per me, un andirivieni di gente che entra ed esce in continuazione come se si trattasse di un importante snodo ferroviario, per me una scuola di vita. Durante la presentazione del corso di scenografia, frequentato da studenti già al secondo, terzo o quarto anno, ho conosciuto Marco, io fresca di matricola, lui al terzo anno. Non è facile parlare pubblicamente di un amico, scrivere qualcosa su di lui e sulla sua opera, che molti o pochi leggeranno. Non è facile separare l’amico dall’artista, almeno per me. Ma gliel’ho promesso, e lo farò, con enorme piacere, con lo stesso piacere che mi ha fatto il suo invito. Marco vive tutto con il cuore e con il cuore dipinge. I suoi quadri hanno il suo cuore dentro, sempre. Siano essi ritratti, o paesaggi, o mondi onirici, o ancora nature morte. Sì, nature morte in cui gli oggetti pullulano di vita, nonostante siano immobilizzati sulla tela. Marco è nato in Trentino, e lì la lingua tedesca si ascolta fin da piccoli, e molto spesso la si parla. Stilleben (dall’olandese stil-leiben e quindi still-life in inglese) è come si dice natura morta in tedesco e che significa appunto vita immobilizzata. Non è morta la sua natura, è viva, è ferma, immobile, e allo stesso tempo vibra, così come vibrano i bicchieri e le bottiglie di Morandi. Tutto vibra nei quadri di Marco, tutto vive, anche in quei meravigliosi paesaggi di montagna da cui sentiamo uscire il soffio dell’aria fresca che ci abbraccia e ci riempie i polmoni, riportandoci ai magnifici paesaggi alpini di Segantini. Perché la montagna è di chi la vive, ma soprattutto di chi la sente. Marco è così, quando dipinge, quando legge, quando parla con gli amici e soprattutto quando guarda il mondo, con gli occhi ingenui del bambino che per la prima volta vede una farfalla svolazzare sui fiori, o una lucertola ferma al sole. La vita è un dono meraviglioso, e vale la pena di viverla, fino in fondo. E lui lo sa. E il sentimento di vita vibra nel colore, nei colori terra alla Sironi, nel bianco che è la luce che illumina i suoi quadri, nelle sue pennellate a volte brusche e sommarie, altre dolci e delicate. Un po’ come lui nella sua vita, nel suo quotidiano, nella sua insistenza, nel suo persistere e continuare a tutti i costi. È il dramma, è la passione, è il non rassegnarsi. È insistere affinché, attraverso l’altro, l’artista stesso rifletta sulla vita, su questa vita in cui le parole hanno perso peso, significato, importanza, in cui ci si rassegna davanti alle bruttezze più assurde, più meschine. E allora nei suoi quadri ci riappare papa Innocenzo X di Francis Bacon, che urla, che ci guarda incredulo, che ci scuote, che brucia, che svanisce, perché fermi davanti a tutto questo orrore non possiamo stare. Attraverso la luce, Marco riempie i suoi quadri di dramma e passione. Negli anni novanta Marco arriva a Lisbona, dove io vivevo e continuo a vivere. Marco cerca la luce – e forse non solo – cerca una luce nuova, diversa dalla sua, delle montagne trentine e del bosco piemontese. La luce di Lisbona è speciale, è forte, ti abbaglia, ti scalda. Le ombre sono scure, i rossi infuocati, i gialli diventano rossi e a loro volta si infuocano. È una luce che arriva dall’Oceano e si riflette sugli edifici colorati delle strette vie della città. A Lisbona Marco si ferma per qualche mese, forse quattro, o cinque, non ricordo. E a Lisbona dipinge senza fermarsi, immortalando sulle tele cose, ambienti, persone, sì soprattutto persone. La luce bianca dei loro volti e dei loro corpi abbaglia lo spettatore, e allo stesso tempo lo accarezza, lo cattura, lo ipnotizza, fino a farlo partecipe del dramma, della vita. Per Marco la vita è importante, molto importante. Lei è stata dura con lui, gli ha imposto dure prove, gli ha offerto diversi ostacoli, fin dai primi anni della sua vita. Eppure Marco la vive con passione, con la pulsazione a mille – nonostante il suo cuore scandisca il tempo in modo costante e imperturbabile – come se la vita finisse domani, come se il mondo stesse per esplodere, cosciente del fatto che la vita valga veramente la pena di essere vissuta, sempre, comunque… Grazie Marco per la tua lezione, per le tue opere d’arte, per la tua voglia di volerti e volerci sempre mettere alla prova, in una discussione continua, piena di arte, di storia, di cultura ma, soprattutto e sempre, di amore. Amore per la vita.
Alf Schneditz – Il volto come paesaggio storico – 2019
Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo.
Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con
immagini di province, di regni, di montagne, di baie,
di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di
astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire,
scopre che quel paziente labirinto di linee traccia
l’immagine del suo volto (Jorge Luis Borges, Epilogo).
Sono cresciuto tra quadri e sculture. Ricordo i disegni di Alfred Kubin: teste volanti fuori dalla finestra, il volto di una donna in manicomio mi guarda. Oggi ho ancora una foto di mio padre che fa la maschera mortuaria di Kubin con un amico, entrambi mezzo ubriachi. Maschere africane con enormi barbe appese alle pareti di casa e in una campana di vetro c’era la tsantsa: una testa rimpicciolita con occhi e bocca cuciti. Nell’infanzia tutti questi incontri con l’arte hanno sempre suscitato in me grande interesse ma mai paura. In seguito ho studiato storia dell’arte con il famoso professore Hans Sedlmayr all’Università di Salisburgo. Poiché le sue lezioni erano frequentate principalmente dalle signore della buona società dei tempi passati che si stringevano intorno al venerato maestro dopo le lezioni, non ho mai potuto porre la domanda sul suo bestseller “Perdita del centro”. Volevo chiedergli se con le opere d’arte che non hanno più un centro si fosse riferito a quella che veniva chiamata arte degenerata. Volevo mostrargli la testa rimpicciolita e chiedergli se fosse arte o semplicemente una testa rimpicciolita al fuoco. È una testa, mi sono chiesto, un ritratto? Chi era l’uomo di cui stavo guardando la testa? L’autoritratto, tuttavia, che Oskar Kokoschka ha dedicato a mia sorella minore come regalo, era ed è chiaramente il ritratto di Kokoschka. Ero – e sono – un osservatore di immagini, per cui ancora oggi preferisco i ritratti. Nell’appartamento di Marco Benedetti, i quadri sono appesi e appoggiati alle pareti ovunque. Non solo nello studio, dove spesso parliamo delle forme e dei colori dei lavori in corso d’opera. Anche nel soggiorno, nell’anticamera, in cucina …. ovunque immagini – di oggetti utili come bicchieri e vasi, figure, figure umane e di cani, ritratti e naturalmente paesaggi. Accanto alle immagini, anche meravigliose ceramiche con vivaci figure mitologiche. Per me i paesaggi sono sempre stati ritratti sfuocati, ai quali il pittore attribuisce una sorta di volto attraverso i colori e le forme. Il paesaggio naturale, calpestato dagli umani, non ha un volto ben definito. È vero che è una natura disegnata e segnata dagli umani. In questo senso, il paesaggio è sempre storico, anche se non continuamente e ovunque. Sterminate foreste, sconfinati fiumi e mari appartengono a una storia naturale che possiamo leggere solo in parte. Ad ogni passo il paesaggio cambia, si avvicina, si allontana. Mi sembra impersonale, anche se posso percepirlo come amabile o minaccioso. Grandi montagne, profondi abissi mi minacciano come se fossero animali feroci. Sono a mio agio in un ameno paesaggio lacustre con colline e villaggi, sebbene sia abitato da ingiustizia e criminalità. Anche il volto umano è un paesaggio. La sua fisionomia è geneticamente disegnata, ma è individualizzata dai segni della vita vissuta. I volti delle figure di Marco e i suoi ritratti mostrano la storia delle persone. Mi chiedo chi sia colui, chi sia colei. Mi chiedo perché il tale viso sia così e non diverso. Il ritratto dipinto è un quadro del momento, benché spesso sia realizzato in fasi più o meno brevi del lavoro e non al momento? Mentre il pittore dipinge il volto che ha o ha avuto davanti agli occhi, allo stesso tempo gli attribuisce una storia che non è solo quella del modello, ma è plasmata dal pittore stesso. I volti che ci guardano dalle immagini, nella loro bellezza o distorsione, nella loro straordinarietà o quotidianità, sono volti veri. Le figure e i volti umani nella pittura di Marco sono i paesaggi della storia in cui viviamo e che cerchiamo di leggere. A volte desidero essere uno dei volti umani ritratti. Vorrei essere uno di quelli che il pittore ha dipinto senza averli mai visti. Come se anch’io fossi l’immagine di un ego inserito tra alberi, animali e abitazioni umane, ove lo spettatore può riconoscermi.
Gianni Giugnini – Ghisogommoso Soft – 2019
Quando, nei primi anni ‘80, Marco Benedetti arrivò a Milano era un giovanissimo artista trentino che cercava una conferma del proprio talento nella Milano da bere. Impiegò pochissimo a capire che Milano gli piaceva e che in questa città avrebbe potuto trovare un posto anche la sua pittura. Ma altrettanto velocemente Marco Benedetti sviluppò una certa idiosincrasia per il tentativo ricorrente dei suoi primi estimatori di inquadrarlo in una delle correnti pittoriche che allora andavano per la maggiore. “Mi piace come dipingi, sei della transvanguardia?” “Bello questo quadro, decisamente pop, non trovi anche tu?” “Ti definiresti un realista o un iperrealista? O forse un superrealista?” La necessità di inquadrarlo in una qualche tendenza del momento era tutto sommato il male minore, visto l’interesse con cui venivano accolti i suoi lavori. Ma per qualche motivo Marco Benedetti mal sopportava queste domande e per molto tempo evitò di rispondere al fatidico interrogativo. Finché una sera, di fronte all’ennesimo tentativo di confinarlo in questa o in quella corrente, Marco rispose semplicemente: ”Direi piuttosto che sono ghisogommoso. Ghisogommoso soft”. Da quei lontani anni ‘80 e fino ad oggi, la pittura di Marco Benedetti è cresciuta e maturata fino ai livelli altissimi di oggi. Marco ha continuato a dipingere lontano da ogni moda e da ogni etichetta; e a chi cerca di trovare nella sua pittura accostamenti con questa o con quella corrente ancora oggi ripete scherzosamente che si riconosce solo nella corrente “ghisogommosa soft”. Il primo sparuto gruppetto di estimatori è cresciuto negli anni. La critica italiana ha riconosciuto da tempo il suo valore: Vittorio Sgarbi ieri ed oggi Jean Blanchaert hanno riconosciuto e riconoscono alla pittura di Marco Benedetti caratteristiche non comuni. Insieme a loro, moltissimi amici e appassionati d’arte apprezzano e sostengono la sua pittura. Con questa antologica Milano omaggia la sua pittura. Una pittura che ha saputo raggiungere l’eccellenza piegandosi ad un solo stile: quello unico e irraggiungibile della pittura ghisogommosa soft.